CAOS CALMO... O QUASI: contenere il senso di urgenza nei servizi sociali
Buone prassi
Si può agire con tempestività di fronte a situazioni umane esplosive avendo predefinito prassi che contemplano l’evento inatteso. L’esplosione del dramma umano deve essere quindi contenuta in luoghi adeguati. Sono spazi previsti per contenere il caos, per non agire d’impulso, per evitare mosse a casaccio, per non aumentare i danni. Per ogni situazione deve quindi esserci assolutamente un tempo per capire, riflettere, indagare il fenomeno. E se si è già agito d’impulso ci deve essere un tempo per riprendere i fili di un pensiero, riannodarli in un progetto, immaginare un futuro per quell’utente.
L’analisi dei casi cosiddetti urgenti, se analizzati e soppesati, mostra allora la carenza istituzionale, fa largo alla discussione comunitaria del problema, rimanda al territorio le sue contraddizioni, fa uscire dall’isolamento.
L’interrogare l’intervento ritenuto urgente dà senso al lavoro sociale come professione che intercetta i problemi emergenti, né dà una prima rappresentazione comunicabile e riunisce chi deve assumersene il carico.
L’assistente sociale diventa allora un operatore di frontiera che accoglie bisogni sociali mai pensati e per questo divenuti urgenti. Questi problemi però non li va a risolvere, bensì li ripropone come situazioni su cui discutere.
E’ facilmente comprensibile la differenza tra il modo di fare di due assistenti sociali che mettono in campo stili di lavoro diversi.
Il primo, chiamato d’urgenza in una scuola per un episodio di bullismo, assume la situazione spinto dalla paura del ripetersi dei fatti. Dà per buona la segnalazione di un ragazzo: il bullo designato. Ascolta inorridito, tanto quanto i docenti, le vessazioni che l’alunno ha messo in atto verso una indifesa compagna. Egli allora convoca subito la famiglia. Mette alle strette il ragazzo. Individua carenze e trascuratezze nella sua vita domestica poiché i genitori sono fuori casa per tutto il giorno. Per proteggere questo adolescente arrabbiato e triste lo allontana da casa. Lo inserisce immediatamente in una comunità educativa. Solo dopo averlo messo al sicuro pensa di aver fatto il suo dovere. Poco dopo il ragazzino scappa dalla comunità. Il caso torna urgente. Le forze dell’ordine lo trovano sudato, stanco e confuso in una stazione ferroviaria. Si oppone in modo violento all’intimidazione di seguire i poliziotti. Aumenta la necessità di agire con urgenza. Arriva il 118. Il giovanetto viene ricoverato in psichiatria. Tenta il suicidio. L’urgenza è adesso massima. L’assistente sociale fa fuoco e fiamme per collocare il ragazzo in una comunità terapeutica. Là trova tanti coetanei allo sbando. Inizia la sua carriera di paziente istituzionalizzato... L’urgenza è finita. La cronicità è assicurata.
Il secondo assistente sociale invece, dopo aver ricevuto la segnalazione dalla scuola, decide di convocare un gruppo di lavoro formato da insegnati, operatori dei servizi del territorio, educatori delle agenzie del tempo libero. Sopporta quindi l’ansia che succeda qualcosa di irreparabile nella classe. Dà alla segnalazione il significato di campanello d’allarme. Ed è di questo richiamo che si fa tramite. All’interno del gruppo da lui riunito aiuta poi i partecipanti a non parlare attraverso quei pregiudizi che sostengono facili soluzioni. Ascolta quindi senza colludere affermazioni quali: "Sospendiamo il ragazzo, avvertiamo le forze dell’ordine, allontaniamolo dalla classe, bocciamolo così la famiglia capirà...". Accetta poi, senza sentirsi in colpa, frecciatine nate dal desiderio di delegare a lui il problema: "I servizi a cosa servono se non intervengono subito. Dovete fare qualcosa di risolutivo, volete muovervi, siete i soliti inetti...". Svela infine il desiderio di liquidare in fretta il problema re-interrogando affermazioni quali: "Dobbiamo allontanarlo subito prima che ci prenda la mano. Mettiamo le ronde a scuola! Convochiamo i genitori...". La conseguenza di questo ascolto permette all’operatore di porre delle domande che vanno alla ricerca del disagio che ha permesso l’espressione della prepotenza. Si scopre così che i fatti denunciati dall’insegnante sono accaduti in sua assenza. Si viene a sapere che la classe in quel momento era scoperta. Si è messi a parte della decisione del dirigente che aveva provveduto a dividere gli alunni in mancanza di fondi per coprire le supplenze...
Il problema si sposta sull’organizzazione del tempo libero dei ragazzi che se non controllato da adulti competenti mette nei guai più ragazzini del quartiere. Qualcuno propone di utilizzare gli spazi di una ex cinema per dare ai giovani l’opportunità di trovarsi autonomamente, ma anche contenuti da adulti competenti... Il caso del bullo viene quasi dimenticato e la soluzione del problema posto dai docenti dà avvio ad un’altra storia.
Certo il primo operatore ha raggiunto "il risultato" di fare qualcosa in metà tempo del secondo. Ma qualche volta bisogna proprio "perdere tempo" per guadagnare tempo. E non solo. Bisogna lasciarsi uno spazio per capire. Per guadagnare vite che se entrano nel circuito dei servizi rischiano l’istituzionalizzazione a vita.
Questa seconda procedura inoltre non solo ha dato una chance in più al giovane imputato di atti di bullismo mettendolo (per giusta punizione) nel gruppo di progettazione dei lavori da fare all’ex cinema in modo da rendere lo stabile funzionale allo stare insieme dei giovani, ma ha messo anche in moto un numero considerevole di soggetti: padri elettricisti, muratori, imbianchini..., madri arredatrici, promotrici della vendita di torte per auto finanziare il progetto, ideatrici della mensa autogestita..., commercianti sponsor, finanziatori, interessati ad investire nel bar, nella sala cinema, nella zona ricreazione..., studenti universitari contenti di dedicare qualche ora al doposcuola, alla pallamano, alla chitarra, ecc. Nessuno potrà accusare l’assistente sociale di "omissione di soccorso". Soccorso alla società civile e non all’insegnate angosciata dalla paura di finire sui giornali perché aveva lasciato incustodita una classe che aveva subito la violazione dei confini gruppali a causa dell’immissione insensata di studenti provenienti da un’altra classe. Magari a questa scuola un buon corso di formazione sul significato del gruppo classe non farebbe male! Chissà se l’amministrazione comunale, capito il problema, non devolva dei fondi per poterlo realizzare!
Il non agire ha portato e porterà dunque ad un intervenire operoso.
Quanto allora la lentezza, così pesante nei servizi, dovuta ad un fare ripetitivo ritroverebbe vitalità se si operasse in questa prospettiva?
Credo infatti che l’altra faccia della medaglia dell’ansia dell’urgenza sia l’angoscia per lo stallo in cui versano tanti casi divenuti cronici. La ripetizione delle azioni è infatti il motore della noia.
La ripetitività senza passioni è l’anticamera del burn out. E il crollo emotivo per accumulo di stress e di noia è l’anticamera della fine di una professione.
- Uscire dalla ripetitività
- L’arte del non fare
- Dal dolore al pensiero
- Una identità incerta
- Sospendere l’azione
- Solitudini esistenziali
- Cornici istituzionali
- Buone prassi
- Bibliografia
- Paola Scalari