CAOS CALMO... O QUASI: contenere il senso di urgenza nei servizi sociali
Cornici istituzionali
Se gli operatori non ce la fanno ad ammettere la possibilità di non agire a casaccio, secondo cioè solitari impulsi da loro spesso chiamati obblighi istituzionali, questo principio lo devono far proprio responsabili di servizio, supervisori e formatori. Chi ha funzioni dissimmetriche non può avere dubbi sul fatto che la "malattia" professionale della fretta vada curata.
Qualche volta fermare l’urgenza che porta ad agire senza senso va fatto anche in modo impietoso.
L’obbligo allora di discutere un "caso" all’interno di un gruppo convocato appositamente per accogliere le cosiddette urgenze del servizio potrebbe divenire un primo passo per bloccare l’ansia da prestazione. Questa talk force, riunita dall’urgenza del caso, diviene il luogo dove sciogliere la fretta che induce ad agire senza senso. (Di una esperienza ispirata a questo principio ho dato dettagliato resoconto nell’inserto di Animazione Sociale numero 5 del maggio 2007).
Le domande che attraversano il gruppo di lavoro che contiene l’ansia del fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di muoversi partono da un primo interrogativo: "Cosa contempliamo con la parola urgenza?" e continuano con: "Cosa si sente improrogabile? Cosa non si è predisposto per tempo al punto che accadono dei fatti che inducono ad agire precipitosamente?". L’indagine prosegue poi chiedendosi: "Se l’urgenza è dell’operatore, della famiglia, del tribunale, del politico, del dirigente...". La discussione si articola infine su quali sentimenti muova questo grido disperato dell’utente per arrivare a delineare, passo passo, un progetto che sappia rispondere al nucleo emotivo del problema.
L’analisi collettiva dei casi permette di stemperare le emozioni. Dà la forza di contenerle. Fa pensare prima di agire. Mette in campo anche le conseguenze del proprio fare. Argina la paura di sentirsi soli di fronte al dolore umano. Fa studiare strategie predefinite per accogliere i fatti della vita imprevisti. Ecco allora che da un operare solitario, mosso dall’urgenza del caso, si passa, nel tempo, ad un sistema simile a quello della protezione civile.
Quando si è sconvolti lo scombussolamento dato dalla situazione non lascia spazio al ragionamento. Le strategie già preordinate aiutano ad agire con prontezza, ma anche in una direzione costruttiva. Il trauma lacerante dell’imprevisto lascia infatti spazio alla rimozione del pensiero. E la psicologia dell’emergenza insegna che dopo il cataclisma ci vuole tempo per ridare storicità a quanto è successo. Parlare e riparlare dell’evento è l’unico modo per elaborarlo. Lo sanno i terremotati, i naufraghi, gli alluvionati, le vittime di violenze..., ma lo sanno anche gli assistenti sociali. L’importanza di trovare ascolto la conosce bene chi ha strappato un bimbo ad una madre tradotta in carcere per un reato, chi ha portato in comunità un figlio rimasto orfano perché suo padre ha ucciso la ex moglie, madre del piccino, e si è poi tolto la vita, chi ha accolto un carico umano giunto stremato dal mare, chi ha ascoltato una bimba puttana strappata alla tratta...
Per questo ogni caso urgente - prima o poi - deve essere contenuto per essere raccontato. Se questa forma narrativa non dà vita a rappresentazioni condivisibili si ripete il trauma. Lo shock che passa inelaborato entra nelle prassi di lavoro dell’operatore. Egli diventa lo specialista dell’urgenza trovandosi sempre a lavorare in modo frettoloso. Il perdurare di azioni convulse è infatti la ripetizione del trauma non sciolto nella narrazione. Ma affinché il turbamento si declini non basta ripetere il racconto dei fatti in modo ossessivo e maniacale. Occorre invece raccontarlo a delle menti capaci di percepire ciò che sta al di là dei fatti e che, proprio per questa qualità dell’ascolto, sono in grado di individuare i punti dove si condensano le emozioni che stanno in bilico tra evacuazione e contenimento, tra rigetto ed ospitalità, tra espulsione e accoglienza.
Per questo un fatto che è stato ritenuto un’emergenza può e deve essere raccontato al collega, al gruppo di lavoro che opera per contenere l’urgenza, al supervisore, al responsabile, alla rete dei servizi, eccetera eccetera. Ognuno ascolterà con le sue sensibilità, competenze, risonanze. E quindi raccontare i fatti più volte non sarà una inutile ripetizione della cronaca, ma un apprezzabile utilizzo della carta assorbente umana.
L’evento urgente che trova solo soletto un operatore lo lascia per sempre in balia di un agire irriflessivo.
Senza interlocutori a cui raccontare i fatti convulsi a cui si è partecipato non si ha modo di digerirli. E ciò che non viene assimilato, rimane indigesto e torna su determinando un operare ripetitivo.
I fatti urgenti allora non sono imprevedibile, è solo imprevedibile quando succederanno! La talk force che entra in azione per una urgenza sociale è quindi come uno stomaco predisposto alla digestione di stati emotivi dolorosi. Si sa infatti che la congestione è nauseante e rischia di dare vita ad una schiera di operatori che deviano verso l’anoressia affettiva.
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- Paola Scalari