CAOS CALMO... O QUASI: contenere il senso di urgenza nei servizi sociali
Dal dolore al pensiero
Ogni assistente sociale avverte il sottile confine che divide il complesso compito del servizio e il suo avvilente sentirsi l’unico in grado di fare qualcosa per uomini, donne, bambini e bambine sempre più inermi, confusi e smarriti.
Coloro che lavorano con le persone corrono perciò il rischio che il loro convulso darsi da fare possa debordare in un succedersi di interventi che mancano di una pensata e ponderata strategia.
Gli assistenti sociali, rimasti solitari paladini dei diritti all’accoglienza dei cittadini, se agiscano senza consapevolezza, finiscono però per entrare, assieme ai loro utenti, nella marginalità. Magari proprio quella che svaluta lo status sociale delle professioni che hanno a che fare con la povertà umana. Ed è proprio questa emarginazione professionale che alimenta l’agire con urgenza tipico degli operatori dediti all’assistenza.
Alle volte viene da pensare che il decreto del Tribunale Minorenni da eseguire celermente, l’assistenza per un disabile da erogare subito, le pratiche per un minore straniero non accompagnato da seguire immediatamente siano così essenziali alla definizione del ruolo dell’assistente sociale che ogni ostacolo a questo suo precipitoso darsi da fare viene da lui interpretato come un attacco alla sua professione.
Ed allora una giornata di formazione è onerosa, l‘équipe è una perdita di tempo, la compilazione delle schede raccolta dati è un’inutile adempienza burocratica, gli incontri di rete sono una prassi da espletare con un orecchio appiccicato al cellulare di servizio...
Chi mai potrà ritenere inutile il lavoro di questo o quel operatore sociale se mai non può sospendere il suo fare, presenziare, essere pronto ad intervenire?
Chi mai potrebbe mettere in dubbio il valore di una professione se tutta la tranquillità della collettività dipende da essa?
E così gli assistenti sociali si affannano a "svuotare il mare con un secchiello" travolti da valanghe di pratiche e affaticati da croniche carenze di risorse.
L’operatore sociale teme la possibilità di dover abbandonare questa dissennata corsa poiché ha timore di andare in crisi. Anche se sa che quella prodotta da questa rinuncia sarebbe proprio una crisi salutare perché romperebbe con la tradizione professionale del passato. Teme però la sensazione di vuoto che lo assalirebbe a causa della mancanza di senso e di consenso che il mondo attuale dà alla mission sociale.
Domandarsi il significato dell’agire frettoloso, convulso, agitato toglierebbe all’operatore sociale l’antico appiglio delle professioni assistenziali. La perdita delle sorpassate abitudini potrebbe perciò aprire la strada ad una depressione insostenibile.
Fermarsi e creare condizioni di lavoro migliori è dunque molto complesso poiché implica una rielaborazione delle funzioni professionali di chi si occupa del sociale in assenza di un contesto politico e comunitario che le riconosca. Sullo sfondo di una polis svuotata dal senso etico l’operatore diviene come una foglia al vento. Privo di agganci, di nutrimento, di legami cade a terra. Morto. L’unica speranza è che questo processo alimenti ben presto nuovi virgulti di pensiero, di logica dell’azione, di valore della professione.
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- Cornici istituzionali
- Buone prassi
- Bibliografia
- Paola Scalari