CAOS CALMO... O QUASI: contenere il senso di urgenza nei servizi sociali
L’arte del non fare
Quando l’operatore avverte l’impossibilità di dare forma ad un cambiamento radicale nella vita di piccoli e di grandi prova un mortificante senso d’inutilità. Sente un’inquietante colpa per essere stato più fortunato. Viene contagiato dalla paura della morte fisica e mentale. A questo punto o soccombe deprimendosi, o si difende con una arrogante insensibilità o si adopera per mettere in moto un piano d’azione. Per ogni assistente sociale trovare un buon equilibrio tra la giusta tristezza, l’opportuna distanza emotiva e la positiva operosità significa mettere in campo un’arte davvero speciale.
Sono dunque delle emozioni intense, lancinanti ed improvvise quelle che varcano con l’urgenza il confine dell’ufficio dei servizi alla persona. Il telefono squilla ed entrano, inattesi, dei vissuti destabilizzanti. L’assistente sociale, seduto al suo tavolo, è assalito da mondi devastanti, da soprusi inammissibili, da azioni indecenti. Viene così immesso, violentemente, in un’altra dimensione di vita. Se ne spaventa. Agisce per controllarla. Vuole risolverla. Tante volte vorrebbe liquidarla con gran velocità per allontanare il dolore insopportabile che provoca dentro di lui. L’impotenza di fronte ai drammi esistenziali viene quindi tenuta a bada con l’idea di fare subito qualcosa. Qualsiasi cosa. L’agitazione è utilizzata per sfuggire alla bruciante amarezza che si attiva entrando in contatto con il dramma di un essere umano che è divenuto - improvvisamente - un soggetto in carne ed ossa. L’utente che ha bussato alla porta è un individuo con una sua identità così come è un individuo l’operatore.
L’identificazione è inevitabile.
L’angoscia della solitudine satura il campo relazionale. Il bisogno di solidarietà riempie il discorso comune. Entrambi conoscono il tormento, la paura, lo smarrimento, la malinconia, l’angoscia, la rabbia, l’amore, l’odio... Gli affetti sono, infatti, sentimenti universali. Sono vissuti senza confini. Sono stati emotivi che permettono quella empatia che sfocia, alle volte, nella confusione d’identità.
Non è possibile quindi non identificarsi con un neonato abbandonato nel cassonetto dell’immondizia. E questo non tanto perché vi sia nella memoria storica dell’operatore un ricordo simile, bensì perché vi è nell’archetipo umano l’angoscia dell’abbandono.
E’ umano parteggiare per una donna proveniente dall’Africa nera con il suo carico di violenze, soprusi, stupri. E non tanto perché si è vissuto lo scempio etnico quanto perché il corpo è un oggetto universale che contiene e definisce se stessi. E la sua umiliazione annienta.
E’ impossibile non sentire il terrore di una famiglia in cui è nato un figlio deforme. E non tanto perché la disabilità ci abbia colpiti personalmente quanto perché la mancanza di una prospettiva di autonomia ed una vita irta di ostacoli ci spaventa. La diversità ci appare sempre ingiusta.
Tutti conosciamo infatti il timore di non essere amati, rispettati, riconosciuti e il terrore di essere abbandonati, violati, umiliati!
- Uscire dalla ripetitività
- L’arte del non fare
- Dal dolore al pensiero
- Una identità incerta
- Sospendere l’azione
- Solitudini esistenziali
- Cornici istituzionali
- Buone prassi
- Bibliografia
- Paola Scalari