CAOS CALMO... O QUASI: contenere il senso di urgenza nei servizi sociali
Solitudini esistenziali
L’operatore che si dedica alle persone tratta sempre di più con persone fragili, con uomini e donne irrisolti, con bizzarrie dovute a problemi mentali, con bambini soli e mal accuditi, con popoli feriti nell’identità... Quelli in gioco sono allora mondi emotivi che hanno bisogno di esser compresi - cioè presi dentro - ed ospitati prima di tutto nella mente dell’operatore. Agire impulsivamente può dunque significare liberarsi frettolosamente del dramma umano anziché fargli posto. Accettare il dolore significa perciò non sapere a priori come alleviarlo e non essere convinti di conoscere cosa si deve fare in quella situazione specifica. Sarebbe utile invece tollerare che non si capisce subito il problema portato dall’utente e darsi un tempo per avvicinare l’ignoto. Ci vuole coraggio, perseveranza, forza d’animo per avvicinarsi allo sconosciuto. Significa predisporsi ad ascoltare la persona che ha bussato alla porta assumendola come il proprio "miglior collega".
L’agire precipitosamente senza comprendere e secondo convinzioni assunte a priori è dunque un liberare celermente la propria mente da vissuti inquietanti. Evacuare il dolore è umano. Forse non vi è altra possibilità se si è soli. E’ davvero insostenibile per un singolo individuo ospitare nel proprio mondo interiore così tanta devastazione umana. Perciò la responsabilità dell’agire con prassi frettolose, burocratiche, ispirate dalla paura dell’autorità giudiziaria non è del singolo operatore, bensì di un sistema che lo lascia solo e smarrito di fronte al dolore di una moltitudine umana che, spaventata, va allo sbando.
Il primo passo per arginare l’urgenza è dunque avere accanto qualcuno che la fermi proponendo di parlarne, discuterne, analizzarne le cause. Qualcuno con cui condividere il problema. Quel qualcuno può essere un responsabile d’area, un coordinatore di servizio, un collega anziano, un operatore di un’altra istituzione... Ma la via migliore è quella dell’incontro con un gruppo di lavoro. Certo che emotivamente l’equilibrio tra "perdere tempo" in questi dispositivi collettivi e l’agire in maniera solitaria per il bene di qualcuno è sempre precario. Perciò sarebbe più utile che le prassi fossero pre-definite. Sono auspicabili procedure di lavoro che impediscano la scelta tra l’agire d’impulso e il fermarsi a pensare. E’ obbligatorio remare contro la corrente che vorrebbe utilizzare l’urgenza come via di fuga dal pensare. E’ però necessario che il lavoro di rete, le commissioni istituzionali, le unità valutative, i gruppi di lavoro, le formazioni, le supervisioni diventino luoghi di vero pensiero. Luoghi dove cercare il senso delle cose appassioni, diverta, paghi! Ma questa è un’altra storia. Il rischio per il quale varrebbe la pena di darle forma è che questi spazi istituzionali diventino non solo inutili, ma anche nocivi poiché privati del piacere del confronto.
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- Paola Scalari