CAOS CALMO... O QUASI: contenere il senso di urgenza nei servizi sociali
Uscire dalla ripetitività
L’affanno non è un buon consigliere. Ma non lo è nemmeno la lentezza.
Come trovare allora la misura tra un agire di corsa e un lasciar stagnare i casi che non evolvono?
Questo interrogativo segnala una delle criticità che attraversano le funzioni degli operatori che si occupano delle persone in difficoltà. Numerosi assistenti sociali posticipano ferie, allungano all’infinito l’orario di lavoro, rientrano in servizio al sabato. Operano sempre in una situazione di emergenza. Affermano:
"Un bambino trascurato si deve allontanare, un anziano disabile si deve accudire, un extracomunitario si deve sistemare,...
E’ con dichiarazioni come queste che gli assistenti sociali giustificano la loro presenza oltre il dovuto, il loro correre convulso, il loro agire, agire e ancora agire" Senza darsi una pausa.
Non è quindi in discussione il fatto che gli operatori sociali siano insediati nel confine caotico di una frontiera che viene valicata da uomini e donne che portano con sé tante tribolazioni, ma il modo in cui si equipaggiano per far fronte a questa onda d’urto.
Ritengo infatti inevitabile che siano penetrati da bisogni umani sentiti come incalzanti ed improrogabili. Ma, nella mia funzione di formatore e supervisore di diverse équipe, sostengo ripetutamente che il loro operare in una zona professionale dove transitano brutalità, degrado, disperazione, angoscia, paura non basta a giustificare il loro adoperarsi in uno stato di continua emergenza. Questo modo di procedere accumula nelle loro menti stress e stanchezza e non lascia spazio alla loro intelligente e feconda creatività.
Una madre tossica raccolta esamine per strada li mobilita ad ogni ora. Un adolescente che tenta il suicidio li richiama in servizio. Un minore abusato li porta ad adoperarsi con tutta l’energia umanamente possibile. Un gruppo di giovanetti afghani ritrovati tra i binari della stazione ferroviaria li fa rientrare in ufficio di domenica. Un padre che infligge punizioni corporali con la cinghia ai figlioletti li fa intervenire con frenesia...
Le storie di vita delle persone disperate arrivano allora, prepotentemente, dentro al servizio sociale. Le vicende di tanti sventurati, inevitabilmente, sfondano il confine mentale dell’operatore provocando nel suo mondo interiore un’implosione del concepibile, tollerabile, ammissibile.
La vita psichica del professionista che opera nel sociale è quindi sollecitata da eventi carichi di dolore, ingiustizia, drammaticità. Il susseguirsi di vicende umane intollerabili si accumula nella vita psichica e nell’animo di chi incontra le persone che vivono ai margini della società. Questa valanga di dolore innominabile, se non elaborata, crea una zona mentale traumatizzata. E’ poi questa parte ferita quella che cerca sollievo imponendo all’operatore di darsi da fare. Il trauma dell’utente che fugge dal suo dramma diventa l’urgenza drammatica dell’operatore che vuole trovare subito una soluzione al problema che gli si presenta davanti.
Agire il trauma è allora un fare senza nominare e declinare il problema. E’ un progettare senza tener conto della storia delle persone. E’ un rispondere senza sviluppare la narrazione degli eventi che hanno segnato la vita dell’utente.
E, senza dare una nomenclatura agli affetti che hanno portato sulla soglia dei servizi sociali una famiglia, un individuo, un popolo, poco si può incidere sul loro trauma.
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- Paola Scalari