I principi generali del nuovo processo minorile e la messa alla prova
Il D.P.R. n. 448 del 1988
Nell’evoluzione della cultura istituzionale nei confronti della devianza giovanile si possono individuare dei periodi storici nei quali sono stati prodotti dei mutamenti a seguito di fatti legislativi ed organizzativi specifici delle giustizia minorile o generali. Punto fondamentale di questi mutamenti è dapprima la novella del 1956 al R.D.L. n.1404 del 1934 con l’introduzione dell’affidamento del minore al servizio sociale per un trattamento in libertà assistita tra le misure rieducative; poi lo smantellamento, dal punto di vista organizzativo, degli istituti di rieducazione; quindi il D.P.R. n.616/1977, che, come abbiamo visto, ha trasferito agli Enti Locali la gestione dei servizi incaricati della competenza amministrativa" con il significato importante di rifiuto della pan-criminalizzazione del disagio giovanile (Corte Costituzionale, sentenza n. 287/1987)". Il D.P.R. del 22 settembre 1988 n. 448 costituisce la prima ampia riforma del diritto minorile. Il processo penale minorile, così come si delinea nei suoi principi guida è considerato un evento delicato ed importante nella vita del minore; deve perciò, essere adeguato alle esigenze di una personalità in fase evolutiva. Se da un lato, pertanto, si configura un processo penale con tutte le garanzie del processo ordinario, dall’altro si tende a limitare, per quanto possibile, gli effetti dannosi che il contatto con la giustizia può provocare.
Il D.P.R. 448/88, integrato dal D.P.R. 449/88 e dal D.L. 28 luglio 1989, n. 272, recante norme di attuazione, di coordinamento e transitorie, delineano un sistema di giustizia penale diversificato, dove il cui momento più significativo è rappresentato dal passaggio del minore da oggetto di protezione e tutela a soggetto titolare di diritti. Infatti, per la prima volta si parla esplicitamente di "interesse del minore", di "esigenze educative" e di "tutela del minore" come criteri giuridicamente rilevanti destinati a influenzare esplicitamente le decisioni e le scelte in tutto il percorso processuale attraversato dal minore.
Nella letteratura specialistica, i principi accolti nel nuovo processo penale minorile sono stati categorizzati e commentati nei modi che qui sembra opportuno enunciare, in quanto determinano la fisionomia particolare della giustizia minorile e si discostano da quelli contenuti nel codice di procedura penale.
Anzitutto è molto presente e persuasivo il "principio di adeguatezza" per cui il processo penale per i minori deve adeguarsi, sia nella sua concezione generale che nella sua applicazione concreta, alla "personalità del minore e alle sue esigenze educative". Il sistema penale deve essere caratterizzato dalla finalità di reintegrazione sociale del minore. Il processo penale, quindi, come sede di verifica del possibile disagio del ragazzo, deve tendere a restituire il soggetto alla normalità della vita sociale, evitando gli interventi che possano destrutturarne la personalità.
Ciò comporta l’impegno della legge e di tutti gli attori del processo a tenere conto delle caratteristiche di personalità del ragazzo e delle sue esigenze educative in termini di criteri fondamentali per operare scelte, per prendere decisioni e attivare interventi in sede processuale.
Questo principio implica una rilevanza centrale dei contributi dei Sevizi Sociali e colloca il lavoro interdisciplinare tra i vari operatori del sistema penale minorile, al livello di condizione necessaria al fine del raggiungimento dei risultati voluti dalla legge.
Collegato a questo principio, ma con significato e valore più vasti, vi è il "principio della minima offensività" che esprime la consapevolezza che l’incontro con la giustizia penale contiene vari rischi per il minore, potendo compromettere lo sviluppo armonico della sua personalità, della sua immagine e dei suoi successivi percorsi di socializzazione.
La norma, però, va oltre questa affermazione di carattere generale e introduce una categoria più specifica e mirata quando vincola giudici e operatori a preoccuparsi nelle loro decisioni di non "interrompere i processi educativi in atto". Il minore deve essere tutelato dai rischi che possono derivare alla sua personalità in formazione dal precoce ingresso nel circuito penale, per cui va evitato, se possibile, tale ingresso favorendo la chiusura del processo e consentendo al minore di uscire al più presto da circuito penale. Il che significa che se il processo penale non riesce a mettersi a servizio di quelle esigenze educative, deve almeno cercare di non essere di intralcio ad esse e di tutelarne la continuità.
"La destigmatizzazione" è a sua volta un principio che deriva dall’esigenza di non nuocere al minore. Infatti, il fatto stesso di essere sottoposto a procedimento giudiziario può essere causa di danni legati a diverse forme di stigmatizzazione, ovvero attribuzioni negative, e comportamenti, sulla persona del minore e sulle sue immagini sociali.
Per la nuova legge evitare stigmatizzazione significa garantire e tutelare la riservatezza e l’anonimato rispetto alla società esterna. Ciò avviene attraverso varie modalità, ma soprattutto: vietando ai mezzi di comunicazione di massa la diffusione di immagini e di informazioni sull’identità del minore; assicurando il processo a porte chiuse, tranne che il ragazzo non richieda, dopo i 16 anni di età, nel suo esclusivo interesse, di far accedere al processo anche la stampa; dando, infine la possibilità tutti i minorenni di cancellare i precedenti penali dal casellario giudiziale dopo il diciottesimo anno di età.
Un principio che opera su un altro piano, forse il più importante, è quello della "residualità della detenzione" per cui si cerca di garantire in ogni caso che l’esperienza della detenzione di tipo carcerario divenga residuale e addirittura eccezionale.
La nuova normativa sottolinea che ogni intervento penale nei confronti della delinquenza minorile, coerentemente con il principio di depenalizzazione, è concepito come extrema ratio e non più come regola. La detenzione viene prevista, nell’ottica del massimo riduttivismo carcerario, esclusivamente quando sia giustificata da rilevanti preoccupazioni di difesa sociale, e ciò sia per quanto attiene agli arresti cautelari, sia per l’esecuzione delle pene. Sono state perciò previste misure completamente nuove nel nostro paese che sono alternative alla custodia detentiva ed hanno una maggiore valenza responsabilizzante e un minore impatto costrittivo, afflittivo e passivizzante.
Il principio di "autoselettività" del processo penale, infine, tende a garantire il primato delle esperienze educative del minore, attraverso forme di autolimitazione e perfino di chiusura che il processo impone a se stesso. Infatti, sulla base delle informazioni raccolte circa la personalità, la famiglia e l’ambiente di vita del ragazzo, oltre che sul reato, il processo può chiudersi con la dichiarazione di "irrilevanza sociale" del reato commesso dal minore, quando l’esperienza giudiziaria rischierebbe di "interrompere i processi educativi in atto". Oppure il processo può essere sospeso per dare avvio ad un percorso operativo che sostituisce il giudizio processuale; si tratta della "messa alla prova" intesa come programma finalizzato ad approfondire le conoscenze sulla personalità del ragazzo e metterne alla prova, appunto, le capacita di cambiamento e di recupero.