Esperienze di libera professione
A metà circa della mia vita professionale, dopo un’esperienza di lavoro come dipendente di un servizio pubblico, ho iniziato a pensare alla possibilità di una scelta di libera professione, a come e perché “mettersi in proprio” come professionista d’area sociale.
Prefiguravo uno spazio possibile di libertà professionale e l’assunzione in proprio di un rischio d’impresa come di un nuovo modo di lavorare, oltre e al di là dei consueti schemi di riferimento.
Il tema era, in quel momento e all’interno della professione, un tabù, una sorta di divieto culturale e professionale: circa venti anni fa, quando ho cominciato la mia esperienza di libera professione, nessuno in Italia aveva fatto questa esperienza né la libera professione era pensata e pensabile.
“Illegale”, “Non è possibile”, “non è permessa!” sono alcuni dei commenti di colleghi, amici, altri assistenti sociali; ma, e contemporaneamente, commercialisti, avvocati, esperti giuridici, si stupivano delle domande ingenue che chiedevano solo: ”Si puo’?” proponendo ipotesi organizzative assolutamente pratiche e concrete... i percorsi possibili di un progetto da realizzare.
Già allora, all’esterno del nostro mondo professionale, non esistevano impedimenti o divieti: il blocco, la difficoltà di pensare e pensarsi diversamente, era espressione di un modello culturale ed emotivo tutto interno alla categoria professionale e tuttora abbastanza presente.
L’esperienza di lavoro sociale è infatti, nella nostra storia e cultura, prevalentemente collocata in enti pubblici e privati, che, in tal senso, costituiscono la base sicura della consuetudine lavorativa, in una professione prevalentemente orientata da un mandato pubblico, articolata tra enti e servizi, leggi e regole di funzionamento organizzativo.
Sapevo che in altri paesi e realtà esistevano esperienze di lavoro diretto, di consulenza e orientamento come di progettazione sociale a diversi livelli, sapevo anche che la mia idea di evoluzione professionale si sarebbe confrontata con schemi e modelli interni alla professione e con schemi e modelli “sociali”: le persone, i servizi, gli enti, potevano conoscere e riconoscere l’utilità di un servizio sociale o di una forma di consulenza non mediata dalle istituzioni ? La novità era o poteva essere compatibile con le forme di relazione professionale abitualmente sperimentate? Esisteva uno spazio di libera professione, nella nostra realtà?
Molto lavoro, da allora, e molte esperienze, che vorrei, per sintesi e per facilitare una lettura utile come eventuale orientamento, distinguere in due aree che mi paiono di possibile prospettiva professionale: non un’alternativa al lavoro consueto di assistente sociale nel mondo della Pubblica Amministrazione, ma un modo di pensare il lavoro sociale come aperto a scenari di lavoro e intervento diversificati, in un mercato del lavoro che ormai sta articolandosi e specializzandosi su temi d’attenzione e interesse sociale che sono spesso quelli professionali specifici dell’assistente sociale.