La supervisione nel servizio sociale
"Aiutare stanca". Con questa semplice frase invito il collega-lettore a riflettere sul fatto che la motivazione al lavoro d’aiuto richiede continua manutenzione. Si tratta di quindi di capire la necessità di effettuare un percorso in continua riflessione (studio, confronto con colleghi, partecipazione ad attività formative), che però richiede ogni tanto una bella revisione a 360°: la supervisione.
Il lavoro di aiuto non è solo "fare", ma anche dar valore all’esperienza che il professionista assistente sociale svolge. Il percorso professionale richiede anche sostegno e accompagnamento, consolidamento dell’identità, sviluppo di competenze rispetto all’operatività, il tutto non solo per sé, ma anche specialmente per migliorare la qualità professionale erogata.
La supervisione è quindi una fase, durante il percorso professionale, in cui ci si verifica come professionisti. Essa può essere individuale, ma sovente viene giocata in ambito gruppale. L’importante è che il supervisore sia esterno all’organizzazione in cui si lavora. Può (e dovrebbe, a mio avviso) essere un servizio offerto dall’organizzazione, con la garanzia, però, di restituzione "organizzativa" al committente, vale a dire non legata alla mera valutazione dei collaboratori. La supervisione quindi non è "controllo" sui collaboratori e sul loro stato di salute o funzionalità, non è neanche psicoterapia di gruppo, ma un percorso di coscientizzazione costruttiva dei problemi presenti sia in ambito relazionale con l’utente che con l’organizzazione presso cui si è inseriti.
Essendo la supervisione, quindi, un "campo neutro" di riflessione operativa e non di controllo, è quello il luogo in cui l’assistente sociale può ottenere un sostegno motivazionale; la supervisione è quindi la sede in cui ogni collaboratore può fare un bilancio personale del proprio percorso professionale, esplicitando i "problemi vissuti" e sforzandosi di comprendere, assieme ai colleghi e/o al supervisore, fino a che punto questi problemi dipendano da se stessi o dall’organizzazione. La supervisione aiuta insomma sia l’organizzazione che il collaboratore a capire "dove è il problema", affinché ognuno faccia i passi che deve fare per fronteggiarlo.
La supervisione promuove il consolidamento delle culture professionali dei collaboratori e rafforza un approccio all’utenza più significativo e più condiviso da tutti; pertanto essa tende a promuovere i collaboratori entro un certo grado di autonomia al fine sia di mantenere un adeguato livello motivazionale che di prevenire fenomeni di burn-out. Ha pertanto senso pensare a supervisioni "monoprofessionali" (cioè aperte ad un solo tipo di professionalità) se l’obiettivo è il mantenimento motivazionale legato ad un ruolo, così come si può pensare a supervisioni "pluriprofessionali" (cioè previste per più professionalità) se l’obiettivo è l’analisi organizzativa o le modalità di funzionamento di un’equipe.
Esistono pertanto diverse tipologie di supervisione e diverse dinamiche da gestire; l’importante è concepire quest’esperienza come un processo di aiuto circolare e giammai come tentativo di controllo o di "forzatura del consenso" del collaboratore sull’organizzazione. Per questo motivo in Italia le imprese -specie quelle pubbliche- sono restie a finanziare le esperienze di supervisione perché si ritengono esse stesse poco modificabili e richiedono al supervisore più l’individuazione del "collaboratore disfunzionale" (la cosiddetta "mela marcia") che il sostegno motivazionale, che è lo scopo della supervisione: così dipende dalla serietà e dall’etica professionale del supervisore la codifica dell’esperienza e la gestione delle comunicazioni con la parte committente, che è l’impresa.
Personalmente ritengo necessario, per una reale efficacia della supervisione quale strumento di sostegno motivazionale, che il supervisore appartenga professionalmente al gruppo supervisionato o che -almeno- sia così aperto alla comprensione di altre professioni. Dal momento che in Italia le professioni di aiuto sono spesso in conflitto o in gerarchia tra di loro, ritengo totalmente deleterio imporre come supervisore un professionista diverso dal gruppo supervisionato. Se pertanto sostegno motivazionale significa porre in sinergia la mission aziendale con la mission professionale (è un concetto basilare per l’assistente sociale specialista, rimando al mio libro "Il professionista dell’aiuto", Ed.Carocci) e se quest’ultima non è univoca ma multiforme, è necessario adire a supervisori che "conoscano e padroneggino "quel" tipo di mission professionale; se ciò non avviene, succede che il supervisore finisce per considerare la mission professionale da trattare non per quella che è (perché la conosce) ma per l’idea che se ne è fatto (spesso connessa allo stereotipo o alla lettura "interprofessionale", sovente a genesi gerarchica). In una frase: "solo l’assistente sociale supervisiona gli assistenti sociali".