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I Modelli del servizio sociale

I Modelli Teorici di riferimento (o Paradigmi) sono delle strutture che indirizzano l’osservazione, l’analisi, la descrizione, l’interpretazione dei fenomeni e guidano l’intervento e la sua valutazione. La loro elaborazione è legata a diverse variabili e al modo con cui queste vengono messe in relazione tra loro e sono: i principi e valori del servizio sociale, le teorie per la pratica1 e le teorie della pratica2, il contesto temporale e spaziale in cui si interviene.

I primi modelli che hanno innescato lo sviluppo del servizio sociale professionale, indirizzando dapprima l’intervento al singolo individuo e poi all’intera comunità sono stati:

Grazie ai successivi studi e all’evoluzione delle scienze sociali, a questi si sono susseguiti molti modelli a cui oggi il professionista fa riferimento per poter intervenire in modo efficace a seconda della specifica problematica.


Casework Modello Clinico Modello Problem Solving
Groupwork Modello Psico-Sociale Modello centrato sul compito
Community work Modello Esistenziale Modello Cognitivo
  Modello Unitario Modello Sistemico-Relazionale
  Modello integrato Modello di Rete
Casework (anche detto "studio del caso individuale")

Fino agli anno `30 lo studio del caso individuale non ha risentito dell’influenza della psicologia dell’io (fase sociologica). Lo schema di riferimento (studio>diagnosi>trattamento) riguarda le teorie della personalità e la psicomotricità del comportamento (fase psicologica).

Situazione in Italia:

Mary Rychmond (New York 1922) "procedimenti intesi a sviluppare lapersonalità per mezzo di adattamenti effettuati coscientemente,individuo per individuo, tra le persone e l’ambiente che le circonda".

Nello studio del caso individuale tutte le richieste costituiscono un primo processo psicologico-sociale.
I mezzi per l’esame del caso sono:

Include, come componente essenziale, l’analisi dell’influsso che l’individuo esercita sul proprio ambiente culturale e del modo in cui ne viene influenzato.

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Groupwork

Le teorie dei gruppi nascono in America a metà degli anni Cinquanta, quando molti studiosi iniziarono ad ipotizzare che agire sul sistema gruppo poteva essere essenziale per lo sviluppo di una comunità civile e democratica.

Il gruppo è tale quando è costituito da due o più persone che si percepiscono in interazioni e in cui vige un senso di appartenenza, di identità e di rispetto per le relative diversità, ma che sono accomunate da uno scopo, da un problema, da una credenza o ideologia.

L’assistente sociale che lavora in un gruppo è di aiuto e stimolo per la costituzione dello stesso e per il progredire sia dell’insieme che di ciascun singolo membro. È necessario accettare le persone, ma non necessariamente tutti i loro comportamenti. L’operatore non deve intervenire per imporre uno standard di sviluppo al gruppo nel suo insieme, ma deve aiutarlo nel mantenere un equilibrio, favorendo l’espressione di possibili conflitti e placando le tensioni troppo dannose. Contemporaneamente aiuta l’individuo a sentirsi un’entità senza perdersi nella massa e a comprendere il suo personale modo di mettersi in relazione con gli altri.

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Community work

In Italia il lavoro sociale di comunità iniziò a svilupparsi negli anni Cinquanta, in seguito ad una revisione del case-work e all’evolversi del group-work.

Il ruolo dell’assistente sociale era quello di aiutare la popolazione a risollevarsi dalla guerra, per la ricostruzione del Paese, ma anche per promuovere delle attività volte a informare e far conoscere i diritti e i doveri derivanti dall’essere cittadini di una repubblica. Lo scopo era, infatti, proprio quello di far sentire e diventare le persone dei cittadini attivi e attenti ai bisogni della propria comunità.

Successivamente tale ruolo si è esteso anche ad altri settori per aiutare le persone che vivono nella stessa zona o che sono accomunate da uno stesso problema a relazionarsi tra loro ed intraprendere azioni unanimi per raggiungere il benessere sia personale che collettivo.

Tale modello comprende, quindi, tutte quelle iniziative che sono rivolte ad una comunità anziché a singoli utenti o a gruppi ristretti, come ad esempio i progetti di animazione del tempo libero, l’avvio di tavoli di lavoro per una programmazione partecipata dei servizi, azioni per far crescere un dialogo attivo tra persone di culture diverse, ecc.

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Modello Clinico

Questo modello di intervento trova i suo fondamenti teorici nella psicologia analitica. Il processo di aiuto viene concettualizzato attraverso le fasi di studio-diagnosi-trattamento dell’individuo, tralasciando il sistema ambiente.

L’assistente sociale svolge un lavoro di insight delle personalità, ossia attua l’intervento sull’Io, cioè la parte conscia dell’individuo, la parte del pensiero, il contatto con la realtà, dell’agire, dell’organizzazione e dell’organizzarsi. Si concentra, infatti, soprattutto sui meccanismi di difesa dell’Io (quali la sublimazione, la negazione, la proiezione, l’introiezione, la rimozione, la formazione reattiva, l’annullamento, la regressione).

In questo modello il transfert e il controtransfert devono essere tenuti ben presenti dall’assistente sociale, la quale deve mantenere sempre la consapevolezza degli effetti che un caso può avere sui processi interni, pensieri, fantasie e mondi profondi, sia personali che dell’utente, considerando che non può essere mai estraneo ai fatti che deve osservare e comprendere. Nel senso che l’operatore riconosce nell’altro parti di sé e ne coglie la sofferenza emotiva, ma ne deve evitare la collusione, cioè quando la vicinanza all’altro diventa eccessiva corre il rischio di non riuscire a diversificarsi in modo netto.

Questo modello introduceva anche l’importanza del setting, cioè della necessità di creare uno spazio e un tempo precostituiti per garantire un intervento professionale adeguato.

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Modello Problem Solving (H. Perlman)

Questo modello, elaborato da Perlman, si sviluppò negli anni `40-`60 e trovava i suoi fondamenti teorici nelle teorie sia psicoanalitiche che nel cognitivismo.

L’idea di fondo definisce l’uomo come un soggetto in uno stato di insoddisfazione perenne (bisogni), che per poter essere soddisfatto si ritrova a dover affrontare un continuo processo di soluzione dei problemi. Quando, però, l’efficacia personale e sociale iniziano ad incontrare delle difficoltà, la lettura del problema può essere limitata da una percezione distorta e dall’attivazione dei meccanismi ansiosi. In questa situazione si può creare un circolo vizioso in cui l’individuo non riesce a trovare delle soluzioni alternative al problema, causandogli un senso di impotenza e insolubilità.

È per questo che l’aiuto esterno diventa importante ed essenziale per far ritrovare alla persona equilibrio e benessere. In tal caso il ruolo dell’assistente sociale consiste nell’aiutare l’utente ad analizzare il problema senza ansie e a differenziare il reale dall’immaginario, stimolando in lui nuove motivazioni ed energie ed insegnandogli ad usare le risorse disponibili in modo sempre diverso ed efficace. Il professionista deve accettare le difficoltà dell’utente sostenendolo anche quando non è capace di prendere delle decisioni autonomamente. Non sempre i fallimenti di una persona dipendono da lei, ma anche dall’ambiente sociale con cui interagisce e con cui l’assistente sociale deve entrare in contatto.

L’ambiente, infatti, può diventare la fonte di molte informazioni non pervenute durante il colloquio individuale con l’utente, durante il quale l’operatore pone domande, fa commenti e dà informazioni. Le domande servono per appurare in maniera obiettiva i fatti. I commenti fatti dall’assistente sociale all’utente lo aiutano nella comprensione e nell’accettazione, nella rielaborazione e riflessione dei fatti. Le informazioni prettamente tecniche vengono fornite al cliente per permettergli di attivarsi e riuscire a soddisfare efficacemente il suo bisogno.

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Modello Psico-Sociale (F. Hollis)

Il modello psico-sociale (anni `30/`60), esposto da Hollis, rientrava nell’iniziale orientamento di stampo psicoanalitico e diagnostico del servizio sociale. Oggi tale ottica consiste essenzialmente in un approccio al servizio sociale attraverso la teoria dei sistemi.

Questo modello non scinde la realtà psichica da quella sociale, ma ritiene che ciascuna situazione sia connotata da come l’individuo la vive. Infatti, l’assistente sociale oltre ad intervenire direttamente sull’individuo, inizia un lavoro sia con l’ambiente più vicino alla persona sia con le risorse e i servizi esterni ad essa.

L’accento viene messo sulla psicologia della Gestalt, ossia sull’idea che il soggetto percepisce in ogni caso la situazione come un insieme unitario e agisce con lo scopo di rendere sempre completo tale insieme. Se nel fare ciò fallisce, sperimenta tensione e frustrazione.

Dopo aver effettuato lo studio del caso, si procede con la diagnosi e la valutazione, ossia si formula un giudizio professionale per poter scegliere il trattamento professionale più adatto. Questo modello riprende tutti gli aspetti del modello clinico, differenziandosi da esso per l’importanza che viene attribuita all’ambiente sociale e interpersonale dell’utente e agli interscambi che si verificano tra di essi, ossia il sistema.

Lo studio psico-sociale non si ferma alla diagnosi clinica per individuare i fattori eziologici del problema, ma approfondisce i legami familiari e sociali e gli avvenimenti accaduti in passato che possono aver avuto delle ripercussioni sul presente.

Si ricorda, però, che l’azione dell’assistente sociale è limitata a specifici settori di vita e non si avvale di tecniche che tentano di portare alla luce primissime esperienze inconsce e non sollecita transfert profondamente regressivi.

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Modello centrato sul compito (W. REID, L. EPSTEIN)

Questo modello sorto negli anni `70 dagli studi di Reid e Epstein, si rifà al problem solving, alle teorie cognitiviste e dei sistemi, a quelle analitiche e della comunicazione.

I fautori di questo modello hanno ritenuto essenziale dare importanza alle relazioni sistemiche, considerandole come parte integrante per comprendere la problematicità della persona, ma su cui non è necessario intervenire. A differenza del modello problem solving, il focus di questo paradigma è il compito e/o contratto che l’utente stipula con l’assistente sociale. Lo scopo è quello di permettere alla persona di responsabilizzarsi nell’affrontare i problemi che lo riguardano, aiutandolo a svolgere, mediante processi di apprendimento sociale, dei precisi compiti guidati.

Pertanto, l’utente diventa un protagonista attivo nel processo di cambiamento, acquisendo una maggiore autostima e consapevolezza di sé. Questo tipo di intervento fa sì che la persona impari ad affrontare i problemi autonomamente, garantendo un’efficacia persistente dell’intervento. L’assistente sociale durante il primo colloquio rileva le difficoltà non chiare all’utente per poi diagnosticarne il problema. Dal secondo colloquio inizierà col chiarire all’utente i problemi da lui presentati per poter stipulare un contratto orale e/o scritto, aperto nel tempo alle modifiche, in cui si rende disponibile a degli incontri periodici con l’operatore. In questo contratto vengono specificati gli obiettivi che si vogliono raggiungere, quindi la risoluzione del/i problema/i e i compiti generali e operativi da svolgere. L’operatore ha il compito di sostenere il cliente durante tutto il periodo di cambiamento aiutandolo nell’analisi e nella rimozione degli ostacoli e nella rielaborazione delle sue azioni e degli eventi.

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Modello Esistenziale

I fautori di questo modello, Germain e Gitterman, che lo svilupparono nel 1965 rifacendosi alle teorie ecologiche applicate alle scienze umane, ripresero il concetto di adattamento tra persona e ambiente. Quando si parla di adattamento ci si riferisce alla capacità della persona di modificare le condizioni ambientali per adeguarle ai loro bisogni e nel contempo adeguare se stesse all’ambiente, evolvendosi.

Il focus dell’intervento resta sempre l’individuo, ma l’assistente sociale deve porre attenzione anche alla prospettiva ecologica (la politica, l’economia, le tendenze demografiche ecc.) per comprenderne i meccanismi e innescare in essi un processo di cambiamento, che possa favorire l’evolversi della situazione problematica.

Il processo di aiuto dall’inizio alla fine è guidato dalla valutazione dell’interazione, comprendente l’Ente come contesto ecologico. Per questo modello è importante capire il significato dell’influenza delle forze più adeguate alla persona e al problema-bisogno-obiettivi­-valutazione delle funzioni manifeste e latenti, piuttosto che focalizzarsi esclusivamente sulla causa-effetto. L’ambiente, infatti, è inteso come un complesso di strati e strutture, in cui i primi includono l’ambiente fisico e quello sociale (reti sociali ed organizzazioni burocratiche); le strutture, invece, sono date dallo spazio e dal tempo.

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Modello Cognitivo

Nasce negli anni `60/`70 e prende lo spunto dal comportamentismo, secondo il quale ad ogni stimolo ne consegue una risposta e tra lo stimolo e la risposta si va ad introdurre il cognitivismo. Questo è legato all’evolversi, in quel periodo, degli studi sui calcolatori, ossia i ricercatori, rifacendosi al funzionamento del cervello umano, iniziarono ad elaborare ipotesi per la realizzazione di un’intelligenza artificiale.

La funzione dell’assistente sociale si concentra sul sintomo e sull’interruzione del meccanismo perverso che non permette alla persona di svolgere nuove azioni più efficaci al suo benessere personale. I fatti vanno capiti, per fare questo si usa la cognizione. I sentimenti vanno rivisitati, non vanno annullati, questo processo di revisione sui propri comportamenti porta ad azioni nuove che modificano le risposte comportamentali precedenti.

Le azioni umane viene intesa come il prodotto di una scelta connessa alle conoscenze e alle intenzioni, sono eventi con uno scopo ed una meta.

Un assistente sociale che lavora con questo modello ha il compito di facilitare la revisione di nuovi scopi e la creazione di un nuovo ciclo. Gli strumenti di cui si avvale oltre al colloquio e al contratto, si incentrano soprattutto sulle tecniche di condizionamento operante. Queste tecniche permettono di far si che l’utente inizi ad acquisire, rafforzare, indebolire o estinguere un determinato tipo di comportamento magari in precedenza deviante.

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Modello Unitario (H. Goldstein)

Negli anni `70 non solo nelle scienze sociali, ma in tutte le scienze umane, si sviluppò l’approccio olistico3, unitario, complessivo. Questo modello avevo lo scopo di garantire l’unitarietà del servizio sociale nei suoi metodi e tecniche, come intreccio di interventi diretti alla persona e al suo ambiente in un processo costante di contestualizzazione della dimensione istituzionale e organizzativa e della dimensione territoriale.

Viene sorpassata del tutto la concezione che non vi sia influenza tra gli individui e l’ambiente, ma si ritiene che vi sia interazione tra loro. In quegli anni gli assistenti sociali intervenivano in molte situazioni collettive, iniziarono a considerare la persona nella sua globalità, nelle varie situazioni micro e macro.

Il ruolo dell’assistente sociale si enfatizza sui diritti dei cittadini e sulle capacità negoziali, da ciò ne consegue che l’approccio dell’assistente sociale deve essere unitario, in quanto la realtà con cui si confronta viene a configurarsi come un insieme di fattori ad elevata interdipendenza, che vanno affrontati con una visione globale. Si parla dell’importanza del territorio come ambito di mondi vitali, culture, area dei bisogni, ma anche di risorse.

Si accentra la dimensione, si fa l’analisi del campo su cui si opera e si lavora con approcci metodologici integrati, si lavora per progetti. Il progettare dà un assetto organizzativo al lavoro dell’assistente sociale, come tutti i metodi hanno una scansione metodologica comune anche il servizio sociale iniziò a seguire un vero e proprio metodo scientifico nell’intervento professionale:

Lavorare per progetti costituisce un modo di concepire la realtà e l’oggetto del proprio lavoro ed è nel contempo uno stile operativo (way of thinking e way of doing).

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Modello Sistemico-Relazionale

Questo modello nasce negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni `60, all’interno della psicoanalisi e fa capo alla teoria generale dei sistemi di Von Bertalanffy. I principali promotori di questo paradigma sono stati appunto Von Bertalanffy, Watzlawick, Reid, Bateson e Haley.

Hall e Fagen hanno definito un sistema come un insieme degli oggetti e delle relazioni fra gli oggetti e i loro attributi. Di cui gli oggetti sono i componenti o parti del sistema e gli attributi sono le proprietà degli oggetti e le relazioni rendono compatto il sistema. Quando si parla di sistemi è necessario distinguerli in base al tipo di apertura (o chiusura) con l’ambiente, in sistemi aperti e/o chiusi.

Il sistema aperto è stato ripreso dalle scienze sociali per riferirsi all’individuo e al suo ambiente di vita, in quanto esso si caratterizza per la circolarità delle informazioni, la retroazione o feed-back, la trasformazione e omeostasi, l’equifinalità.

Nell’ottica sistemico relazionale la conduzione del colloquio richiede tecniche specifiche e un atteggiamento mentale volto a trovare una risposta alla domanda "a quale scopo" e non "perché". Un colloquio in chiave sistemico-relazionale deve caratterizzarsi per la circolarità delle domanda, che consente di ottenere informazioni e non notizie, che vengono supportate anche da quelle date dalla famiglia o dai gruppi primari. L’assistente sociale si deve porre con atteggiamento neutrale, non deve schierarsi e non deve privilegiare alcuna punteggiatura verbale.

Il vivere presente dell’utente e la sua situazione interpersonale sono l’oggetto dell’intervento, l’obiettivo terapeutico è il cambiamento.

La complessità del campo è forte proprio perché l’oggetto di conoscenza e di azione è la società nella sua realtà dinamica. Ciò che interessa l’assistente sociale è l’intersezione bisogni-risorse, perché spesso è proprio la carenza delle risorse che toglie autonomia alle persone nell’affrontare e risolvere i loro problemi. L’intervento si focalizza sull’interdipendenza tra persona-territorio-organizzazione di risposte (tridimensionalità dell’intervento).

La comunicazione ricopre, secondo tale modello, un ruolo essenziale nella relazione di aiuto, in quanto è impossibile non comunicare perché è attraverso questa azione che si instaurano le relazioni. Il professionista non può escludere l’eventualità di non essere influenzato da premesse epistemologiche e da pregiudizi teorici che vengono a far parte del contesto stesso.

Il focus di partenza deve essere il destinatario dell’intervento e la raccolta delle informazioni deve puntare a raccogliere notizie anamnestiche, elementi relativi al suo contesto ambientale e sociale, sull’inviante, sulle informazioni del problema e l’analisi della richiesta. Queste serviranno per la costruzione del progetto di intervento, che si inscrive all’interno di un contesto relazionale prevalente, definendo in maniera specifica le attività e gli obiettivi.

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Modello integrato

Il modello Integrato è stato il prodotto di uno studio di cinque anni svolto negli anni `70, presso l’Università del Wisconsin, da Pincus e Minahan, per fornire una base comune di conoscenza, valori e capacità e superare il tradizionale focus caso-gruppo-comunità.

L’obiettivo del servizio sociale è di creare dei legami e delle interazioni tra persona e ambiente sociale per realizzare le funzioni esistenziali e perseguire le proprie aspirazioni.

La funzione dell’assistente sociale è di aiutare le persone al problem solving per le funzioni esistenziali, facilitando i legami dell’utente con i sistemi di risorse e quelli sociali. Quando si parla di risorse ci si riferisce anche a quelle materiali che possono essere erogate tramite sussidi, buoni, ecc., dall’operatore secondo le norme date dall’istituzione di cui fa parte.

Durante l’intervento professionale l’assistente sociale lavora in quattro sistemi di base:

Il processo di cambiamento programmato si evolve in varie fasi, quali:

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Modello di rete

L’intervento di rete è un modello utilizzato all’estero da decenni, ma fa la sua entrata nel panorama italiano alla fine degli anni `80. Il lavoro di rete in Italia trova il suo entroterra culturale e teorico in diverse correnti di pensiero, che vanno dall’antipsichiatria, all’approccio comunitario applicato al lavoro sociale di stampo anglosassone.

In Italia, il grande interesse che si è manifestato negli ultimi anni intorno a questo modello di lavoro è riconducibile a diversi fattori:

Il concetto di rete4 suggerisce come metafora della realtà un reticolo di punti di diverso addensamento, che sono posti tutti sullo stesso piano senza alcuna subordinazione reciproca.
Le reti si dividono in:

L’assistente sociale fornisce un’attenta valutazione del contesti culturali e valoriali del territorio, identificando le diversità e le molteplicità come una ricchezza da salvaguardare e da difendere. Nella prospettiva della logica assistenziale conosce i soggetti attivi del campo sociale, sia pubblici che privati, promuovendo la collaborazione delle risposte articolate e differenziate. Il territorio diviene il luogo privilegiato, come nella progettazione, perché potenziale rete di reti, perché incrocio di rapporti e relazioni.

L’operatore deve saper capire e valorizzare ciò che accade, rispetto alle proprie aspettative e valutazioni, ponendo la sua attenzione sulle problematiche che possono sorgere nei processi di rete, più che quelle individuali. L’operatore può orientare la vita di relazione della rete, in modo non direttivo, cioè adeguandosi ai tempi e ai modi delle reti stesse.

Operare in modo non direttivo favorisce l’empowerment degli individui coinvolti. Tale concetto costituisce la base del lavoro di rete. Il senso di autoefficacia del destinatario dell’azione d’aiuto appare ancor più cruciale quando la relazione non è duale, ma mira ad attribuire potere al sociale, quindi alla pluralità delle persone in connessione. L’osservazione della rete è, dunque, un passaggio obbligato nel lavoro per progetti per capire le persone e le loro difficoltà, per aiutarla in un processo di consolidamento. La rete viene quindi considerata come progettazione di percorsi interattivi e condivisi per rendere le persone soggetti attivi della propria vita, diffondere la cultura della partecipazione e delle solidarietà e affrontare il disagio in un’ottica non settoriale.

La formazione, o meglio il riconoscimento dell’appartenenza ad una rete è l’effetto più significativo dell’azione esplorativa dell’operatore. Tale processo si sviluppa fino ad ottenere il consolidamento dell’appartenenza dei singoli con la totalità, mediante un processo graduale di presa di coscienza dell’esistenza di determinate relazioni e dei rispettivi vincoli.

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Note:
Bibliografia:

A cura di:
Angela Paparella
Il "Casework" è un contributo di:
Alessandro Borca
Creation date : 2006-08-30 - Last updated : 2010-01-11

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